Esistono alcune patologie, della mamma o del feto, che possono indurre il ginecologo ad effettuare un’interruzione volontaria della gravidanza: il cosiddetto aborto terapeutico che ha come fine ultimo quello di tutelare la salute della mamma o evitare che un feto si sviluppi affetto da patologie gravi o gravemente malformato.
Si tratta di problemi di salute particolarmente gravi: alcuni tipi di tumore, soprattutto che necessitano trattamenti dannosi per il feto, o da importanti malattie renali e cardiovascolari dal punto di vista della salute della mamma e disordini cromosomici, malformazioni e patologie neurologiche per quanto riguarda il feto.
L’aborto terapeutico è regolato dalla legge 194 del 22 maggio 1978 e viene generalmente eseguito entro il terzo mese di gravidanza. Questo limite viene ulteriormente esteso in caso sussista un reale pericolo di vita per la madre.
Si svolge ovviamente in ambiente ospedaliero e solitamente avviene in due modi:
Quando la gravidanza è ad uno stadio più avanzato, invece, (oltre le 16 settimane di gestazione) sarà indispensabile avviare un piccolo travaglio per espellere il feto. Il travaglio viene indotto attraverso la somministrazione di prostaglandine per via vaginale nell’arco di 12 ore. Si tratta di un travaglio ben meno doloroso e intenso di quello che avviene al termine della gravidanza. La paziente può chiedere di essere sottoposta ad anestesia generale al momento dell’espulsione.
Sono proprio l’ambiente ospedaliero e la competenza del personale medico che scongiurano il rischio di effetti collaterali come infezioni o infertilità. E’ bene perciò sempre rivolgersi al proprio medico.